Il Decumano Superiore

Qualcuno lo definisce il Decumano dimenticato. Forse lo è, ma in questo non trovo nulla di malinconico, semmai qualcosa di romantico.Rimasto intatto nei millenni svela lo spirito più intimo della città. E’ un viaggio nella memoria, da percorrere in silenzio perdendosi in un’atmosfera di sospensione temporale.

Questo luogo, in origine denominato la Somma Piazza, fu frequentato ed abitato da nobili e letterati che lo predilessero non solo perché lontano dal caos degli altri due decumani, ma anche per la vicinanza agli impianti termali (alcuni resti sono ancora visibili al Carminiello ai Mannesi).In epoca greco-romana qui sorgeva il teatro scoperto in parte ancora oggi visibile. Conteneva migliaia di spettatori e si rappresentavano drammi satirici, tragedie e commedie e diede grande fama a mimi e danzatori napoletani. E poi vi era l’Odéion, il teatro coperto, utilizzato soprattutto per la musica. Era in realtà un’istituzione culturale dove si tenevano spettacoli, gare ginniche e conferenze filosofiche.

La mia passeggiata inizia però dall’estremo opposto del decumano, ovvero da Largo Santa Sofia, luogo che ha scritto una pagina di storia importante della città. Qui, infatti, secondo la tradizione si trovava la piccola bottega di un sarto dalla cui botola, grazie alle indicazioni di due muratori che conoscevano bene le viscere di Napoli, sbucarono i soldati aragonesi al seguito di Alfonso il Magnanimo. E così, dopo un lungo assedio fuori dalle mura, riuscirono a conquistare la città. Ai due ignari complici, il sarto Citiello e sua moglie Ciccarella, furono assegnati per ricompensa pensioni a vita e alla loro figlia Elena una preziosa stoffa in dono per il suo corredo.

Poco dopo, in uno slargo sulla destra, è la Chiesa dei SS. Apostoli, in assoluto una delle mie preferite. Quel che più mi affascina è il netto contrasto tra la facciata semplice, quasi anonima, e il sorprendente interno, bello, maestoso e ricco d’arte. Non posso fare a meno di entrarci: bellissimi la cupola affrescata con “Il Paradiso” dal Benaschi e l’altare Filomarino disegnato dal Borromini. La storia ci racconta di un luogo importante poiché il primo nucleo della chiesa, risalente al V secolo, fu a sua volta costruito sulle rovine di un tempio pagano dedicato a Mercurio. E soprattutto perché fino al 1800, quella dei SS. Apostoli, è stata la prima delle otto chiese di turno ad ospitare i sacerdoti che celebravano la festa dell’Inghirlandata durante la quale si portavano in processione il busto d’oro e le ampolle contenente il sangue di San Gennaro.

Percorro ancora poche decine di metri e alla mia destra sorge l’imponente edificio di Donnaregina che ospita il Museo Madre. Dell’antico complesso conventuale restano la Chiesa costruita in epoca barocca e la trecentesca Donnaregina Vecchia, uno dei monumenti più importanti del medioevo e rara testimonianza dello stile gotico originario a Napoli. La costruzione della nuova, che risale al 18 secolo, permise alla vecchia chiesa di restare chiusa ed isolata all’interno del monastero di clausura e così si è preservata nei secoli. Quasi dimenticata, oggi è uno scrigno d’arte con gli affreschi di scuola giottesca e altre opere d’arte tra le quali il bellissimo sepolcro di Maria d’Ungheria scolpito da Tino da Camaino.

Attraverso l’incrocio con Via Duomo, e all’angolo una bella loggia con scale a doppia rampa, introduce alla Chiesa di San Giuseppe dei Ruffi che prese il nome da una delle famiglie nobili che contribuì alla sua realizzazione. La chiesa contiene, a mio avviso, uno dei più begli altari presenti in città, capolavoro di Dionisio Lazzari e altre opere di notevole rilievo di Giuseppe Sammartino e Luca Giordano.

Giungo nel tratto denominato Via Anticaglia, nome con il quale generalmente s’identifica l’intero decumano, perché lungo questo tratto sono ancora visibili i resti più antichi della città greco-romana, e in particolare due arcate di rinforzo della cavea dell’antico teatro scoperto la cui forma è percepibile più avanti nell’andamento curvilineo di Via Pisanelli. Luoghi così descritti da B. Capasso: “ Quelle muraglie sono i ruderi che ricordano l’antica città, gemma d’Italia, occhio della Campania, il primo centro della cultura ellenica in Italia meridionale.”.

Tra i protagonisti che vi si esibirono, si ricorda l’imperatore Nerone che amava particolarmente questo teatro potendo contare su un’audience piuttosto benevola che assecondava la sua vanità e lo spirito artistico al di là dei suoi reali meriti. Si narra che durante un’esibizione canora dell’imperatore, si verificò una scossa di terremoto che spaventò gli spettatori ma di fronte alla quale Nerone restò impassibile portando a termine la sua performance.

In un piccolo largo, una volta chiamato Capo de Trio, incontro la Chiesa di Santa Maria di Regina Coeli. Il monastero fu uno dei più ricchi e preziosi di Napoli, ospitando suore appartenenti a famiglie nobili (tra le quali Pappacoda, Pignatelli, Caracciolo, Sanseverino) che contribuirono con il loro patrimonio alla realizzazione di numerose opere d’arte. A dire il vero, però, conservavano una vita alquanto agiata avendo a disposizione piccoli appartamenti attrezzati con tutte le comodità e finanche una serva personale.

Lungo la stradina si affacciano botteghe che appaiono come cartoline dal passato: antiquari, qualche falegnameria e una piccola legatoria con annessa esposizione di macchinari antichi.

L’attenzione però cade su uno di quei luoghi non ben definibili dove non si comprende se si è al cospetto di una bottega, di un laboratorio, di un luogo espositivo o addirittura mistico. Libero ingresso, luci soffuse, un grande presepe al centro della scena e tutto vi ruota intorno. E sparse ovunque fogli di carta con frasi inneggianti ora all’amore universale, ora alla misericordia, ora alla Madonna o ancora alla buona sorte e alla crianza . Un’icona di una Napoli scenografica, senza tempo e sempre in bilico tra cristianità e paganesimo.

Faccio una piccola deviazione per Via San Paolo e mi dirigo presso la sede dell’archivio notarile che occupa parte del monastero teatino e conserva al suo interno l’antico chiostro. Sulle pareti dell’androne resti di affreschi, ma purtroppo il grosso è andato perduto sotto strati di pittura accumulati nel corso dei secoli. Il chiostro mantiene comunque un’atmosfera piacevole e rilassante e venirci per scambiare due chiacchiere con Gaetano, il custode per eredità, per scoprire qualche aneddoto o ammirare i carri che in legno che costruisce per la processione della Madonna dell’Arco parcheggiati in un angolo del chiostro, è sempre molto interessante.

Torno sui miei passi e mi dirigo verso Via Sapienza, dopo poche decine di metri sulla destra scende l’antico cardine di Vico Sole così denominato in onore del dio Apollo. Proseguo fino a giungere a Sant’Aniello a Caponapoli. Sono sul punto più alto di Neapolis, dove sorgeva l’Acropoli della città greca con i templi più importanti dedicati a Demetra, Apollo e Diana, punto di arrivo delle processioni e teatro di sacrifici.Per la massiccia presenza di marmo che veniva utilizzato per la realizzazione dei monumenti, la zona era chiamata regio marmoriata.

Da Sant’Aniello a Caponapoli, tra l’altro, proviene quella grande testa chiamata “Marianna ‘a Capa ‘e Napule” e che il popolo ha sempre identificato con la sirena Partenope. Ma questa è un’altra storia. Per oggi può bastare, sono alla fine del mio itinerario ed è tempo di un buon caffè.